L’antologia: Chew-9

La mia prima, e per ora unica, raccolta personale di racconti

Chew-9, la droga del benessere. Un potente allucinogeno in grado di sconvolgere la vita degli esseri umani, che a volte si dice possa far interagire l’immaginazione con la realtà, manipolando la materia per ottenere effetti sconvolgenti. Dieci racconti per fuggire dall’immaginario collettivo scivolando nella psicologia di personaggi estremamente reali, in una società futura ipertecnologica e decadente al tempo stesso.

Dalla introduzione di Vittorio Curtoni

Come forse due o tre dei miei cinque lettori sapranno, io non amo in maniera particolare il cyberpunk. Diciamo pure che lo odio. Da buon vecchio reazionario conservatore, mi sono fermato alla grande stagione fantascientifica degli anni Settanta, e molto oltre non vado. Tanti degli idoli attuali, da Sterling a Gibson, mi sembrano signori che rimasticano vecchie strutture narrative mascherandole sotto una patina di nuovo, o presunto tale, che in realtà si ferma a una spruzzata esteriore di innovazione stilistica. Le storie, alla fin fine, son sempre quelle, e per i miei gusti venivano raccontate meglio da scrittori come Sturgeon, o Bester, o Sheckley, o Dick. Dico questo per chiarire il mio punto di partenza nei confronti di questi racconti, che spesso e volentieri cyberpunk sono; eppure, stranamente, mi sono piaciuti. Perché? Cercherò di spiegarlo. Intanto, propongo di rispolverare per la narrativa di Franco un’etichetta che forse qualcuno di voi (solo le vecchie mummie come me, s’intende) ricorderà applicata ad altre cose: signore e signori, qui siamo di fronte al cyberpunk dal volto umano! Col che voglio dire che anche laddove ci si lanci in ardite avventure stile cowboy del cyberspazio, con colossali lotte fra matrici elettroniche, sistemi di difesa informatica, programmi iperincazzati eccetera, e un singolo eroe della connessione neurale, i moventi sono quelli delle pulsioni romantiche ottocentesche: si veda “Morte dell’Agglomerato”, dove tutto accade solo ed esclusivamente in forza di un innamoramento. O “La scatola della musica” (bellissimo; il mio racconto preferito, by the way), dove la distruzione si compie sì, ma con quale strazio, quale dolore. Molto romantico, appunto. Molto umano. O umanistico, se preferite. E se anche è indubbiamente vero che il genere cyberpunk ha, nel suo insieme, una spiccata propensione per il romanticismo donchisciottesco dell’eroe solitario, ciò che mi piace nel modo di scrivere di Forte è il suo rifiuto di abbandonarsi a un’orgia di terminologie pseudotecnologiche, al delirio verbale martellante, ossessivo. Non che manchi, nei suoi racconti, tutto l’armamentario ormai classico dell’intima connessione fra uomo e computer; anzi, è vario e abbondante, e porto con parecchia fantasia. Però non è fine a se stesso, non è il senso e lo scopo delle storie: è solo una vivida rappresentazione dei suoi mondi futuri, un background tecnologico che fotografa gli ambienti e le situazioni in cui i suoi personaggi si muovono. Lo si puo’ godere con calma, senza venirne sommersi (come, ahimé, a mio modesto parere accade spesso con certi guru del cyberpunk), lasciandolo in sottofondo come uno dei tanti tasselli del quadro globale. Sicché la parola di Franco resta una parola umana, non meramente tecnologica; e per quel che mi concerne, non può esistere scelta migliore per ogni possibile autore. Di fantascienza e non. C’è, dietro queste storie, una matrice (non spezzata; ancora integra, a Dio piacendo) che ci riporta direttamente alla gloriosa stagione delle riviste pulp, ai primordi della narrativa di genere. Ed è la natrice della hard boiled school che ci ha dato, tanto per citare due nomi scelti a caso, i libri di Raymond Chandler e Dashiel Hammet. L’atmosfera che circola in questi racconti è sostanzialmente la stessa. I protagonisti di Forte sono, chi più chi meno, eroi solitari, paladini di una concezione “virile” dell’esistenza; e che poi siano criminali che debbono scontare una pena (come in “Sentenza capitale”), imbroglioni alla ricerca di soldi facili (come in “Sole giaguaro”), o persone che si sottopongono scientemente a esperimenti scientifici (come in “Quarta dimensione”, una storia affascinante per le prospettive visuali che apre), poco importa. Tipi duri. Gente dura che cozza contro una o più realtà troppo solide per poterle abbatere con una semplice craniata. Cape toste, direbbero a Napoli. E se anche non mi risulta che Franco Forte sia originario di Napoli, debbo in tutta onestà dire che è una bella capa tosta. Al di là di ogni dubbio. Perché scrivi oggi, scrivi domani, è riuscito coi suoi racconti a costruire un universo compatto, estremamente omogeneo. Dominato dallo spettro del Chew-9, una droga che Franco ammette di avere derivato dal Chew-Z di Philip K. Dick di “Le tre stimmate di Palmer Eldritch”; e va bene, no problem. Il nome stesso è un omaggio alla memoria di Dick. Una droga che non solo altera la percezione della realtà, ma puo’ modificare la realtà stessa; restituire le gambe a chi non le ha più, permettere di librarsi nei cieli del cyberspazio, comandare un’astronave in rotta di collisione con un buco nero. Insomma, fare tutto. Anche friggersi il cervello, eventualmente. L’unica cosa che non ho capito bene è se Franco stia o no con gli Antiproibizionisti… L’impressione generale che questi suoi racconti mi hanno dato è stata quella di essere di fronte non a un’antologia, ma a un romanzo dalla trama spezzettata in tanti rivoli, tanti personaggi. Perché, al di là del Chew-9, di storia in storia il lettore si accorge di trovarsi in un mondo coerente, ben delineato, riconoscibile da un episodio all’altro. Un futuro piuttosto agghiacciante e malconcio, ma non privo di lati affascinanti. E vedo rispuntare, di nuovo, il fantasma di Philip Dick, grande cantore delle catastrofi che ci attendono dietro l’angolo, e che anzi sono già cominciate, però la gente preferisce chiudere gli occhi e tirare dritto. Ecco: se c’è un senso ultimo, una morale da trarre dalle storie di Franco Forte, è l’invito ad aprire gli occhi. Lui di certo non li tiene chiusi; e con queste sue trame sapientemente costruite, con un gusto del narrare dal sapore molto classico fuso con le strutture post-moderne (si può dire? Mah…) del cyberpunk, ci invita a fare altrettanto. Speriamo che qualcuno gli dia retta. Non sarebbe una cattiva idea.

Keltia Editrice
Collana I CALICANTI
Formato 15X21,
208 pagine
Brossura con alette
Copertina a colori di E. Musciàd
Illustrazioni interne di D. Marsan

In vendita sul sito di Keltia Editrice

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