FUGA D’AZZARDO

Non sempre fuggire significa continuare a vivere…

Kimberly è bella, bionda e famme fatale. È la donna di Mirko Sladek, suo amante e uomo di fiducia del boss La Cocca, che controlla lo spaccio sulla costa Ovest degli Stati Uniti. Durante una compravendita di droga, la ragazza scompare con una valigia piena di eroina. Da chi e perché scappa Kimberly? Dal suo amante? Dalla vita criminale che conduceva? Tra tradimenti e morti ammazzati, Kimberly fuggirà da Los Angeles a Cremona, inseguita da sicari della malavita americana e dalla polizia italiana. Alla fine, la sua fuga sarà stata solo un azzardo?

Ecco l’incipit del romanzo:

Los Angeles, giugno 2007
Il ragazzo di colore, le guance incavate e i vestiti rattoppati, saltava e si contorceva come un ballerino di professione, impegnato in uno sfrenato tip-tap al seguito dei virtuosismi del suo accompagnatore, un vecchio nero che ricordava Dizzy Gillespie con l’anima del grande Mulligan. Non suonava swing e neppure be-bop, ma la musica del suo sassofono aveva qualcosa di entrambi i generi e il sapore umido delle ballate di New Orleans.
La folla strisciava compatta sul marciapiede e aggirava l’ostacolo creando una sacca tra la facciata dell’Harper’s Rock Café e la catasta d’immondizia che delimitava l’angolo della strada: una bolla d’aria fatta dei suoni aggressivi del sax e del talento acerbo di un ballerino che aveva nel sangue millenni di danze tribali.
Kurt Hoffgauer restò qualche minuto a osservarlo, affascinato dalla velocità con cui tacco e punta sfioravano il selciato, battevano il ritmo, recuperavano l’equilibrio con un esercizio da circo equestre. Il sax strappava note languide al chiasso del traffico, e in qualche modo Hoffgauer sentì che gli penetravano nel sangue.
Qualche anno prima lui aveva cercato di diventare un suonatore di jazz: aveva avuto davanti agli occhi il mito di Jelly Roll Morton e di Dave Brubeck, uno dei pochi bianchi con sangue nero nelle vene. Ma non aveva talento, e per quanto l’avesse inseguito con tenacia, adesso che vedeva quei due sul marciapiede si rendeva conto di che pasta era fatto.
Una mano gli batté rudemente sulla spalla, riscuotendolo.
— Ci stanno aspettando.
Hoffgauer si girò a guardare la cicatrice che falciava il viso del suo accompagnatore. Quell’idiota non sentiva la musica, non percepiva la grazia nei movimenti fluidi del ragazzo. Restò un istante a fissarlo negli occhi color brodaglia, poi annuì lentamente e infilò la mano in tasca. Ne cavò un rotolo di banconote da cinquanta dollari, ne sfilò una dal fermaglio d’oro e la lasciò cadere nel cappello sudicio del vecchio sassofonista.
— Che cazzo stai facendo? — gli chiese sorpreso l’uomo con la cicatrice. — Le strade di Los Angeles sono piene di straccioni come questi. Se ti fermi a regalare cinquanta dollari a ognuno di loro, resterai al verde in un paio d’ore.
Hoffgauer si passò la lingua sui denti e lo guardò senza rispondere. Gli occhi verdi e le sopracciglia bionde facevano di ghiaccio quello sguardo sotteso dai muscoli duri delle mascelle. L’uomo si strinse nelle spalle e gli fece segno di seguirlo. Era evidente che non capiva gli europei e se ne fotteva se volevano gettare al vento i loro soldi.
— Muoviamoci — disse facendosi largo a spintoni tra la folla. — Al capo non piace aspettare.
Hoffgauer lo seguì con un senso di disagio che gli nuotava nello stomaco. Los Angeles sarebbe morta presto, soffocata da quell’aria irrespirabile che sapeva di catrame.
E a lui non sarebbe importato niente, se non fosse stato per il sassofonista da strada e il giovane ballerino che l’accompagnava.

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